Credo che in certi momenti si veda la nostra fragilità.
Siamo fragili nei vasti pomeriggi, quando le ore si paludano, i giorni diventano settimane e non rimaniamo invischiati, incapaci di smuovere l’aria, di darle direzione, di fare accadere le cose.
Siamo fragili per il modo in cui affrontiamo il silenzio. Non abbiamo la capacità di coltivarlo e farne meraviglia, di lasciare depositare la bellezza che ci circonda in quello spazio. Di camminare, di osservare, di non provare a capire. Ma siamo fragili anche perché il silenzio non lo sappiamo spezzare, non lo sappiamo scavalcare quando è necessario, quando le cose ci passano a distanza di una parola eppure rimaniamo incapaci di pronunciarla. No, non è rispetto del silenzio, solo vigliaccheria, un inchino alla ignavia.
Siamo fragili perché siamo incapaci di conservare le tracce delle cose che ci accadono dentro e tutt’attorno. Ti rendi conto, poi, che le persone e gli avvenimenti ti attraversino come un vento che ti scompiglia l’anima, ma a cose avvenute non sapresti dipingerlo quel vento, non hai trovato un modo di catturarne l’odore o l’angolazione, di segnarti la forza o la prossima destinazione. Rimani con i tuoi rami spezzati, come medaglie a celebrare i tuoi cambiamenti, come cartoline a ricordare un altrove che ora però ti sfugge: l’immagine non gli fa giustizia e lo sai. Al massimo un poco d’invidia.
Siamo fragili e proprio per questo dobbiamo andare per le vie, a spingere l’aria, a smuoverla, a cadere, a spezzarci gli arti, a lottare con il silenzio e poi abbracciarlo, a fare entrare le tracce dentro noi di ogni cosa forte che ci attraversi e poi continuare, così, sicuri che certi venti torneranno, che taluni nasceranno dalla nostra forza di volontà, che altri li incroceremo per le strade che ci siamo concessi, e che alcuni verranno a meravigliarci dritti nel nostro giardino.
Siamo fragili, continuiamo ad esserlo, ma in maniera spavalda. Che comunque vada non ne usciremo nè vivi nè intatti.