Mi ritrovo a fare i conti con la mia natura. Ci sono cose che vorrei essere; in particolare vorrei, con umiltà, imparare a essere felice.
In tutta onestà ritengo di avere da un lato la voglia di spendere impegno nelle cose, le poche che mi interessano, e d’altra la capacità di far scattare, sebbene non a comando, quella scintilla che rende vere le cose.
Mi rendo conto però che a fronte di buone intenzioni e capacità latenti mi ritrovo spesso a procedere a tentoni, come accecato. A cadere nuovamente in buche d’umore. A fare somme e ricontrollarle solo per concludere che i conti non tornano, che c’è un difetto nel registratore di cassa.
Non posso cambiare quello che sono, perché un certo modo d’essere l’ho respirato dall’infanzia, e ciò che respiri mentre cresci ti rimarrà per sempre nei polmoni.
Credo si possa però imparare il mestiere meticoloso di crescere attorno ai propri difetti, dato che non si può vincerli. Imparare a conviverci. Trovare il modo di imbrigliarli, renderli se non una decorazione, un tocco di colore, almeno un borbottio di sottofondo.
Così la domenica mattina, o quel che rimane quando mi sveglio, è persa, giocata male ai dadi. Però poi basta una scusa qualsiasi, un intruglio che contiene Guaranà e ripenso a Luca che un giorno mi raccontava di aver iniziato ad assumerlo per riuscire a svegliarsi. Pensi a Luca e non puoi più essere triste.
Mi rendo conto che ci sono pezzi bellissimi, rari, incastonati qua e là. Riserve di felicità che si trovano voltando una pagina, aprendo la dispensa, svoltando un angolo.
Certo, mi sento un mendicante di felicità talvolta, e non mi sembra giusto, non mi sembra di meritarmelo.
Ho una visione generosa di ciò che io meriti e più e più volte mi sembra che, a un certo punto, qualcosa sia andato storto, abbia imboccato un percorso che non è quello proprio, corretto.
Sono meschino e mi impicco a confronti di persone che, senza gesti, impegni, senza una ricerca faticosa della “cosa giusta da fare”, passano di felicità in felicità, senza soluzione di continuità. Io rimango invece costretto a terra, a calcolare quale sia il prossimo movimento da fare, il prossimo progetto di felicità. Fino a quando mi viene voglia di rovesciare il tavolo, di prendere l’altro percorso, quello di accettare l’inferno e diventarne parte fino al punto di non vederlo più invece di continuare a esigere da me attenzione e apprendimento continui, proseguire questa ricerca sfinente di chi e cosa in mezzo all’inferno non sia inferno, e trovargli spazio e farlo durare1. È un lavoro avvilente e sfinente. Io ho voglia di riposo, di un posto dove io possa riposare.
Sembra che non ci sia.
Francamente, sono stufo. Sotto diversi aspetti vedo che i miei sforzi, forse solo le mie tensioni inconcludenti, non mi portano in nessun posto fra quelli in cui vorrei essere. È un puzzle: mi mancano i pezzi per finirlo.
[1] Vedi la fine de Le città invisibili.