December 14, 2018

Mi hanno chiesto

Certe mattine ci si sveglia più irlandesi del solito.

 

Mi hanno chiesto di disegnare la felicità. Ho preso carta e penna, sono sceso lungo il torrente e ho cominciato a disegnare. È venuto fuori che ha il tuo volto, le tue forme, che la gioia scorre lungo le linee dei tuoi zigomi, che inonda l’incurvarsi delle tue gote e poi esplode lunga l’armonia del tuo collo. Sono sceso fino al ginocchio e poi ti sei mossa. Mi è rimasta una felicità che non sta in piedi.

 

Ho riguardato il foglio e l’ ho strappato, ho sfidato la realtà truce a fare diversamente. Ho allora riprovato a disegnare la contentezza sulla sabbia. Invece di un abbozzo sghembo è emerso il tuo modo fatidico di sorridere, senza crederci davvero. L’ho cancellato di un gesto rabbioso e mi sono detto che la felicità non dorme a un metro e mezzo dal mio cuore, asserragliata nell’impossibilita delle cose che non sono state. Un vento aspro si è levato, ad accompagnare un suono lontano. Mi cullava una nenia che spiegava come la felicità fosse sopravvalutata, la realtà un vezzo sciocco. Non sapevo se piangere o trovare nuovi modi di dimenticare. Scartavetrarmi l’anima, uscirne finalmente pulito, buono a qualche cosa. È tutta la vita che mi manchi.

 

Mi hai fatto scompensare i ritmi, ho perso un battito e mi è rimasta questa dissonanza di fondo. Il cuore fa tu-tum e poi si arresta, prende una pausa, si ingolfa. E poi si inchioda. Dio, pietà, fammi dimenticare. Fammi scordare che ci siamo mai incontrati. Dammi qualcosa con cui fare a pugni, qualcosa da afferrare e strangolare. Non schernirmi con fantasmi che non riesco ad inchiodare. Che rimangono così, getti di vapore a sussurrarmi parole incomprensibili all’orecchio. Mi chiedo se sono io che ho perso la possibilità di capire, o loro mettono insieme discorsi con le parole che hanno trovato qua e là, copiandole ai viventi.

 

È strano, sai. È strano da impazzire, e forse dovrebbe essere solamente strano da riderci su, che io mi porti in tasca la grandezza, che abbia un cuore che potrebbe straripare e travolgere contee, e valli, e sovvertire gli ordini, e instaurare nuove leggi della fisica.

 

E invece.

 

Lo senti questo odore di stantio? È il mio crederci, chiuso in una scatola e messo via, per una stagione che non arriva.

 

Chissà. Magari diventerò un filosofo. Magari un giorno salirò in montagna, a cercare di incontrare ancora i lupi, a farmi guardare, a farmi spiegare da loro chi io sia e come io possa. Perché cosa io possa mi è già spaventosamente chiaro. È un rammarico che muore in gola come un grido interrotto. Poi è silenzio, ma un silenzio confuso, che non capisci dove inizi e dove finisca. Che ti lascia assordato dal tentativo di sentire, che ti lascia sperduto a fare un passo in ogni direzione e poi tornare indietro, con la sensazione che comunque qua non ci siano direzioni, che ogni passo cada inutile allo stesso modo, come una sentenza costantemente rimandata, di un minuto. Una sentenza che non arriva mai e si sta qui a cercare di capire che fare quando si potrà ricominciare, per poi scoprire, solo alla fine, che era l’ultima partita della giornata e ora bisogna che si va a casa. Che non è mica bello. Che non importa, è così.

Comments

Leave a Reply

Your email address will not be published.