Un tempo, prima che questo processo avesse inizio, stringevo la tua mano. Le mie dita si rassicuravano nello sfiorare le tue. Il tuo sguardo reggeva il mio, certo e solido. Poi tu mi hai chiesto di voltarmi, di guardare nella direzione che stavi indicando. Per permetterti quel gesto ho lasciato la tua mano, per un attimo. Tu dal faro della Vittoria mi indicavi come la luce irrompa nelle vie del precollina, come prosegua senza soluzione di continuità oltre il fiume, per poi allagare tutto il centro. Mi spiegavi come, prestando attenzione, si potesse udire il rullio bianco che cola versa la pianura, si ingrossa, fa per montarsi di impazienza ma infine rimane nell’abbraccio di quegli argini che tu indicavi. L’onda di luce poi raggiunge la sua destinazione e si assesta. Si concede solamente un improvviso luccicchio selvaggio dove non l’aspetti, un vezzo a rifrangersi su uno specchio, un modo bizzarro di illuminare un cartellone, l’arte di accecare un passante. Avevi come questa urgenza di spiegarmi che quell’energia poteva diventare ordine, rimanere forte ed immensa, senza strafare in un singolo gesto. E io ti ascoltavo, sciocco, invischiato nelle tue parole. Non notai che la tua voce si era fatta flebile. Io guardavo dove indicavi e non dove eri. Eppure in qualche modo avvertivo quel cambiamento che era in atto. Mentre fissavo la cascata di luce che si avviava lungo il suo percorso notavo tracce infinitesimali del tuo colore. Lo sapevo, senza poterlo capire, che tu sanguinavi colore ad ogni parola, che ti stavi spendendo in quella spiegazione. Capii solo in seguito come tu credessi che la Vita fosse da vivere in maniera lieve. Che calcare i passi fosse sbagliato, che ogni respiro dovesse essere solo accennato. Che tutto ciò che era lecito fosse un sospiro.
Quando siamo scesi, ripiombati da dove si osserva a dove si è osservati, qualcosa era cambiato. Ma non avevo quel genere di occhio per comprendere, a quel pensiero non ero ancora pronto. Così continuai a rimanere lo spettatore stolido del tuo disperderti in frammenti. Del tuo riuscire a dimenticare tutto in maniera sublime. Camminavi così leggera che alla fine rimase solo l’ombra dei tuoi passi, la tua voce si era fatta troppo sottile, dispersa da battiti d’ali, da l’onda d’urto di una bicicletta che passa, travolta da un leggero colpo di vento. Tu volevi solo dimenticarti, abbracciare quella pace, quella quiete infinita in cui non disturbavi, non avevi a giustificare nulla, non avevi a misurare l’esito dei tuoi atti e delle tue paure.
Alla fine sei riuscita nel tuo intento. Non ti ho percepita più. Ricordavo dove si trovasse il tuo sorriso, il modo che aveva la tua voce di incresparsi, quando un tempo qualcosa ti emozionava. Però sembrava nessuno più capisse. Quando a tarda notte, parlavo di te seduto al tavolo di un bar, pareva come ti descrivessi in una lingua che avevi svuotato di significato. Capisci? Ti eri fatta lieve anche nella memoria, avevi lasciato tracce incomunicabili, a cui le parole non rimanevano appiccicate. Quel tuo ultimo trucco era stato fare a modo che io non avessi più la capacità di richiamarti in un discorso, d’intrappolarti in uno scritto. Credo che tu volessi quella libertà, l’infinità leggerezza dello scomparire dalla bocca, seppure il cuore conservasse una memoria primeva, orfana di ogni spiegazione.
D’allora sono ritornato di tanto in tanto a guardare giù dal faro, a cercare di scorgere il tuo colore nelle vie. Certe volte mi sembra di vederti in un riflesso, in un volto che subito scompare dietro un angolo. Forse era questo il destino che volevi, non essere per essere ovunque, come capace di abbracciarmi ad ogni angolo, di tornare in modo improvviso, ma solo per un attimo, lieve e perfetto, dove nulla di vero e difficile può venire a farti domande, a strattonarti. Così irraggiungibile che la tua memoria rimanga solo a me, e alle vie, ma solo quelle più fortunate.
Commento di prova