Siamo ingordi di esperienze. Alleniamo i sorrisi, cerchiamo le inquadrature migliori, sfogliamo le possibili destinazioni delle ferie, gli impegni a cui non possiamo mancare, i luoghi da visitare in fretta e furia, le mostre a cui poter dire di essere stati, i film che si possa dire di aver visto.
Abbiamo soprattutto ansia.
Abbiamo ansia che qualcosa ci sfugga, che il nostro piatto non sia abbastanza pieno. Ecco, se c’è qualcosa che riflette il nostro tempo sono quegli apericena a buffet, dove danziamo con piatti stracolmi di cibo che non amiamo. Sono i sushi all-you-can-eat che non ci spingono a soffermarci su cosa vogliamo mangiare ma su cosa possiamo ragionevolmente afferrare.
Il mio timore è che questa filosofia da conto alla rovescia, da offerta permaflex in perenne scadenza ci invoglia a non pensare. In definitiva è l’antitesi della scelta. È l’opposto del desiderio.
Fermati. Che cosa desideri? Che cosa scegli?
Siamo sicuri di avere mai scelto e non arraffato semplicemente? Le persone che avete a fianco sono quelle che si trovavano a portata? Erano compromessi ragionevoli?
Il problema è che scegliere vuol dire dire di no, focalizzarsi, proseguire, attraversare deserti, non cedere all’assedio dei dubbi, continuare. Ci vuole tempra. Ci vuole disciplina. E poi quella sofferenza, quella ricerca è difficile renderle in un selfie, in una citazione. Non suona bene quando spasmodicamente stiliamo i bilanci della nostra vita, a periodi di un quarto d’ora.
Avere una visione di lungo periodo è quasi sovrumano. Ma un’alternativa c’è ed è concentrarsi sui piccoli moti dell’animo che ci dicono cosa sia giusto o sbagliato, cosa degno o meno. Possiamo chiamarla etica, possiamo chiamarlo istinto. A misurare a quel modo i passi forse si arriva da qualche parte.