Sono tornato stanco da Firenze, sarà che partire il giovedì sera, dopo lavoro. Sarà il letto scomodo, in un hotel a una stella. Sarà piazza della signoria, saranno tutti quei turisti. Tutti spersi a naso in su e nessuna che sappia contare i metri fino a casa sua, che sappia ricucire la distanza. A meno di attraversare il ponte e trovare uno di quei quartieri in cui i bambini giocano a pallone contro il muro della chiesa.
La conferenza di per sé è stata un’ottima esperienza, ma per quella c’è il blog di quell’altro, di quello serio. Io invece bevevo un bicchiere dopo l’altro, guardavo Firenze che si appiccicava alla vetrata. E poi tornavo, quando iniziava a piovere e la città s’affannava in un sabato mattina che mi dicono, peraltro, non esistere.
Poi sono tornato, diciamolo pure, rincoglionito, da un sabato sera a zonzo e poi in quella casa dalle stanze enormi. Ho pensato poi, c’ho questo pensiero che mi infastidisce la testa. Ho pensato che le forme diverse in cui cerchiamo siano gabbie.
Ho pensato ai pezzi che cerchiamo per comporre una vita in cui, poi, essere felici.
Ho pensato ai codici che cerchiamo di recuperare, capire, interpretare per poter liberare la soluzione della felicità.
Ho pensato ai sacrifici che cerchiamo di offrire per poter essere degni della felicità. Alle ferite che dobbiamo infliggerci per purificarci da questo corpo e dai suoi legacci, da questa mente e dai suoi limiti. Alle scuse che sappiamo interporre sempre, in un gioco a domino che ricominciamo, ancora. Agli ostacoli che troviamo dietro ogni pietra rimossa. Mi sono chiesto se il tempo di essere felici fosse ora.
Sarebbe meraviglioso, vero?
E se magari la solitudine fosse apparenza. Se ogni mancanza, un nostro semplice guardare nella direzione sbagliata.
Ma sono troppo sobrio per capire queste cose, ora. Ci penserò poi.