Sei diventata la madeleine di una stagione, il segnalibro sotto una pila di giornate, incombenze, scadenze, che cresce e cresce, marcando distanze. Poi piove e i bordi si fanno, te lo dico, più sottili, translucidi. Sei di nuovo lì a saltare a piedi uniti in una pozzanghera. Il volto, ti confesso, vacilla, rimane un sorriso a mezz’aria: ride per l’acqua che si solleverà e mi bagnerà. Sembri non stancarti mai di ripetere lo stesso gioco, nè l’acqua di sollevarsi ancora.
Così sembri volermi dire che puoi essere la poesia abbandonata fra i libri di prosa, la virgola che spezza l’equilibrio di una frase elaborata. Ti guardo, i pensieri galleggiano sulla pozzanghera. La pozzanghera però non riflette la tua immagine, troppo concreta per capire quello che non c’è.
Non so quando ho smesso di affacciarmi alla finestra, di lasciare cadere i pensieri per strada, a mandarli a esplorare le vie per poi raccontarmele. Ho creduto di non essere più capace di correre dietro, ai pensieri. Di aver perso l’agilità, quello slancio antico. Ho creduto nell’atrofizzarsi di quel muscolo che rende Vivi. Mi sono reso conto, con infinito ritardo, che invece i pensieri li avevo raggiunti, e superati, di slancio. Che quello che attribuivo al loro coraggio era paura. Ho capito quanto fossero vulnerabili, quanto stolidi. Quanto gli atti prevalgono sempre sui pensieri, anche i più nobili e puri. Ho pensato, là su quella pozzanghera, che era stato bello essere vulnerabili assieme. Che se non avevo rimpianti conservavo la meraviglia delle cose: di quelle passate e presenti, e del loro svolgersi.
Ho realizzato che se un tempo lo snodarsi delle cose mi sembrava complesso e immotivato: un nodo che serra la gola, ora, sarà la fiducia, coglievo l’arabesco, il disegno di insieme. Allora mi sono messo a disegnare, cose e progetti, fatti e decisioni, su tele più stabili di una pozzanghera.