Mi sembrava di stare discutendo con un fantasma. Che tu non potessi più essere qui, io e te parlare come quando i nostri pensieri erano allineati e c’era un filo che correva, fra te e me, e lungo quel filo eravamo capaci di comunicare, di parlarci. A volte quel filo lo tiravo, per avvicinarti a me, a volte eri tu a dargli uno strattone leggero, per richiamarmi all’attenzione dei tuoi occhi.
Perduta quella chiave, le nostre parole annaspavano, cadevano a terra, troppo pesanti, incapaci di trasportare vero significato. Per me eri già persa, resa irraggiungibile dall’impossibilità di comunicare. La chiave per decifrare il modo di stringere gli occhi, di aggrottare la fronte o distenderla era perduta. Non potevo più raggiungerti.
Per me eri quindi divenuta un fantasma. Avevo la sensazione che le tue mani stessero svaporando, proprio lì, di fronte a me. Mentre ti guardavo scomparire, ero consapevole di non avere una reazione possibile, una difesa di alcun tipo. Rimasi ammutolito nei pensieri e nei gesti. Non comprendevo quello che tu dicessi, ero confuso dalle tue azioni, non capivo la trama che muoveva le tue intenzioni, dove ti portassero quelle parole arrabbattate, quel tuo tenere lo sguardo basso, quell’incapacità di rivolgerti a me. Come può la distanza farsi così improvvisamente reale?
Mentre quel processo proseguiva, mentre ti facevi lieve come un sibilo lontano, sottile come una giacchetta a vento quando fa freddo, io allora capivo che quel tuo destino finiva con l’essere il mio. Che noi viviamo solo negli occhi delle persone, nei riflessi delle cose che costruiamo, nelle tracce che lasciamo nelle Vite altrui. Che se tu non eri più, io, per reazione inevitabile, diventavo sempre più bianco, sempre più impalpabile. Cercavo di alzare la voce, di reagire, di esistere. Uscivano solo suoni ovattati, versi striduli.
Poi, un’accelerazione improvvisa: eri fuori dalla scena. Io, che non avevo più modo di definirmi in relazione nè a te, nè a progetti da reinventare, nè in affetto da dare, io allora non potevo che essere muto, e sordo, e vuoto, ed immobile. Come un sasso in una valle stretta. Come un sasso lontano da un sentiero. Come un sasso che non sa voltarsi.
Pensai che fosse ingiusto. Che se avevo quelle energie non era lecito non avessi modo di esprimerle. Che mi ritrovassi interi mondi compressi dentro me, che mi stritolasse un livello di pressione e di silenzio a cui non mi sembrava corretto chiedermi di far fronte. A cui non potevo che far fronte, per via dell’assenza di una valvola di sfogo, di un meccanismo a protezione non dico della mia incolumità, ma perlomeno del mio poter esistere, e manifestarmi, e fondamentalmente essere, come un agente di cambiamento, che si manifesta nel mondo per mezzo di tracce decise, di gesti morbidi, di pensieri delicati, di parole, di azioni curate, di istinti ineluttabili.
Ma io non ero più nulla di tutto questo. Ero ritornato nella lampada. Inutile come un maglione un ferragosto, come una bottiglia di Calvados vuota. Io restavo, cos’altro potevo fare? Mi dibattevo, pur non percependo differenza alcuna, insistevo. Mi stancavo e non misuravo alcun progresso. Tutto sembrava inutile, come chi si agita in acqua ma non c’è riva verso cui dirigere gli sforzi. Eppure continua, investe energie in qualcosa che sembra soltanto uno sforzo a morire un poco più in là. Eppure battermi, anche quando tutto sembra manifestatamente inutile, è la mia natura. Non so resisterle. Sento le braccia stanche, le osse pesanti, e continuo, e non ho pace, e insisto, e ancora, e mi chiedo perché e non ho risposte.
Mi sembra di essere un sasso che cade verso il fondo, e continua ad agitarsi, non gliela da vinta, e a volte per un miracolo si avvicina alla superficie dopo aver vinto la fisica e il limite delle sue energie, e poi riabbraccia il fondo, e ogni resurrezione non può che essere impossibile. E se sono un sasso forse dovrei solo decorare il fondale, riconoscere la mia natura, rendere più comfortevole il mio ambiente. Eppure, non posso arrendermi, in un supplizio in cui le aquile mi divorano le viscere, in un fine pena mai.
Ma forse è questo che rende così grandiosa ogni mia rinascita: la sua impossibilità. Eppure, anch’io, a modo mio, ho saputo costruire mondi dove la felicità faceva vibrare la luce, la decomponeva nei suoi elementi primari e la riassemblava a coronarti il viso. L’ho fatto, anche se era impossibile. Perché io traverso valli profondissime di infelicità. Ma proseguo. Molto oltre il ragionevole, guidato dall’idea che ti incontrerò oltre tutto questo. Oltre i fantasmi ed i deserti, i dolori e gli annegamenti. Oltre i secoli di paura e dolore che mi si sono polverizzati nelle vene. E io li vincerò, come ho sempre fatto. E ti ritroverò, perché la mia fine è sempre e solo l’inizio.