In ogni anima in pena vi è lo scheletro di un miracolo.
Attende che i fasci di muscoli tornino ad avvolgerlo, che le vene si richiudano, che gli occhi sboccino come fiori.
Attende il ritorno della pelle, che venga a tenerlo assieme, a ridargli un senso, la dignità per potersi presentare in società.
Attende, ogni miracolo, non la giusta sepoltura ma il tempo che già non gli appartiene. Il tempo di un altro.
Vedi, è questo il problema fondamentale dei miracoli: l’egoismo. L’incapacità di tornarsene a casa senza rancore.
Credi, miracolo, di essere stato il primo ad occorrere su questa terra?
Nel midollo hai solo il tuo nome, la sicurezza che non ci fosse altro spettacolo cui assistere in quest’angolo di mondo.
Poi sei passato, non hai avuto cura di te stesso. Eri troppo intento a rimirare la pelle che avevi allora.
Ma tu eri solo le ossa, che sorreggono e nulla più, che sorreggono ma non le vorresti incontrare in una notte scura. Lascerebbero solo spaventi, ticchettii nervosi a graffiarti l’anima.
I miracoli si abbandonano, non si prende nemmanco il tempo di seppellirli. Li si lascia per strada, che i viaggiatori abbiano a meravigliarsi, ad ammirare la conformazione del cranio, la dimensione del torace, la lunghezza spropositata degli arti. Ogni miracolo, passato il suo tempo, diventa aberrazione, fonte di orrore per la distanza atroce fra ciò che poteva e ciò che è stato. Un miracolo, quasi sempre, è un trucco che non riesce, un vecchio che si piscia sui piedi.
Eppure, dove non lo vedresti mai, rimane un grammo di meraviglia, incastrato fra le costole, nascosto vicino allo sterno. Lì rimane una bruciatura azzurra. La osservi. Ti sembra di rivedere, di capire. Di comprendere quanta bellezza si possa incontrare e perdere, chissà perchè, chissà come.
I miracoli li dai per morti. E poi ti sorprendono. Si rialzano. Ritrovano lo splendore della giovinezza. Così, solo con l’incapacità di arrendersi. Sono i vizi che danno respiro ai miracoli. È l’ostinazione che risuona nella loro gabbia toracica.