Ci sono ferite che passi una vita a cercare di guarirle.
Fino a che?
Fino a che punto continua questo muoversi di cellule, questo rinnovarsi di tessuti, questo stare lì a decomporsi in sfumature di stati d’animo? Quand’è che arriva la fine di questo processo (o di questa (auto-)condanna)? Forse ci sono più risposte.
Fino a che impari che non guariranno mai, che rimarranno lì a farti compagnia, a calcificarti l’anima. E allora va bene così. E’ compagnia, forse non buona, ma compagnia. Sono lezioni che non ti perdi per strada. Sono il tuo percorso, cicatrici di cui si può anche essere orgogliosi.
Fino a che impari a non farci più caso. Che tutto sommato le cose hanno l’importanza che gli dai. Solo quella e nulla più. Allora chiudi, come un libro che ti ha stufato, come le foto di una vacanza in cui ti sei ammalato. Come la lettera di una donna che non ha che scuse da raccontare a sé stessa.
Fino a che ricordi il male, capisci l’origine. E allora lo smonti, cade in tanti pezzi. A quel punto se lo guardi negli occhi potresti precipitare in qualcosa di peggiore. Perché alla fine nel male un senso fai sempre fatica a trovarlo, per lo più è auto-distruzione, e quella non la puoi capire o smontare. Puoi solo precipitare in gorghi via via più profondi.
Fino a che ti convinci che in fondo, anche il dolore ha quel suo retrogusto agrodolce. Che non hai mai corso davvero se non sai che sapore ha il sangue in gola. Se hai bisogno di sentire la milza che grida pietà. Se pensi non ci sia battaglia da raccontare, senza una cicatrice da mostrare.
Fino a che ti da la nausea questo ronzare intorno alla stessa sensazione, ti ritrovi a desirare qualcosa di fresco, fosse anche nuovo dolore. A quel punto cerchi qualcosa, qualsiasi forma od odore che sia diverso da quello che ti assilla.
Ci sono ferite che poi siamo noi, nel senso che costituiscono ciò che siamo. Come reagiamo: è lì in fondo che si vede una persona. Lì e nella propensione a farsele le ferite. E però non si può essere solo reazione e sopportazione. Ci vogliono altri tipi di scatto in cui annacquare la capacità di guarire. Non si può guarire chiusi in una stanza. Quella è una leggenda buona per qualcun altro.
Io non ricordo, poi ricordo, poi dimentico, poi riprendo. E poi ho questa confusione che è un pot-pourrì di emozioni spiaccicate, annaffiate, rimescolate, incollate alla bell-e-meglio. Le guardo, le butto in un angolo ed esco a cercare qualcosa di nuovo. Qualcosa che mi ferisca ancora, perché non mi spaventa farmi male. Mi spaventa molto di più non vivere.