Credo, alla fine dei conti, di aver ripreso a sentire i sapori nel 2012. Ce n’è voluto parecchio, di tempo e di impegno.
Sono volato, due volte, al matrimonio di uno dei miei più cari amici, e, una volta, a quello della mia più cara amica.
Ho cominciato l’anno tornando da un capodanno in Francia, giocando a carte con Camille sul treno, ho fatto la vendemmia in Slovenia, sono andato a vivere in Germania lavorando con i miei idoli, sono volato in India, ho speso dieci giorni in Romania, sono stato ad Amburgo a trovare Flavia, ho corso per Madrid con ‘Tonio e la Giovannona, ho viaggiato su una decappottabile in compagnia di balordi d’accatto, ho presentato le mie idee a Firenze e Ciudad Real, ho firmato il mio primo contratto per un libro (niente paura, si tratta di esercizi di programmazione, mica di narrativa). E un sacco di altre cose che probabilmente ho dimenticato. Ho un vaso pieno di biglietti del pullman, treno, metro, aereo che ho preso in diversi paesi (Francia, Slovenia, Romania, Spagna, Olanda, India, Austria, Germania, Italia perlomeno).
Insomma, mi sono dovuto impegnare ma alla fine ho cominciato a sentire nuovamente delle sensazioni, a un livello più vivido, ad avvertire il piacere del tempo che mi scorre sulla pelle, a gestire con una sorta di gioia primitiva il mio tempo e le mie energie, a prendere le decisomi per il gusto di sentirmi vivo e bene.
Non so dire perché avessi smesso: forse non sono mai stato capace a vivere, forse era che mi ero annoiato, in fondo. Forse è nato tutto da un gennaio di alcuni anni fa. Da un certo discorso e le sue conseguenza, da un bacio tanto amaro, a celebrare un anno che non è mai finito e mi ha lasciato schegge di vetro fra i denti e per le vene. Il mio corpo ci ha messo del tempo ad assorbirle, a triturarle, a sconfiggerle e andare avanti. Forse è anche che, a volte, dopo rimane una malinconia dolce, e non ti va di guarire del tutto, ti sembra di venir meno a una promessa con te stesso. È un po’ tradirsi, permettersi di guarire.
Fra l’altro l’ho rivista, e non è più lei, è una donna più matura e più felice. E ho pensato, in modo molto distante, come fosse un’eco che mi arriva da tanto tempo fa, che è una cosa buona e giusta, e che questo dona un equilibrio alle cose. Ricorda in certi gesti, in alcuni atteggiamenti la donna che ho amato, se ne vedono le tracce, ma sono dettagli di colore, più che altro. D’altra parte anch’io non sono più io, quell’io. A volte facciamo la fine di quelle vecchie magliette che nell’armadio non si trovano più: spariamo per distrazione, e hai voglia a cercarle, a cercarci. Forse qualcuno ce le butta via per far spazio a qualcosa di nuovo e di migliore, forse è a quel modo che ci spegniamo e ci reinventiamo, ma continuiamo in qualche modo sommesso a rimpiangerci, scordando che quella maglietta si era stinta, che noi siamo ingrassati o dimagriti, e che, ahimè, ciò che era spiritoso a vent’anni, ora è un rigurgito di un tempo che non è più nostro.
Io sto bene, di un bene buono. Amo da morire le cose che sto facendo per lavoro (fatico a chiamarlo così), l’idea di andare a vivere con il mio migliore amico, le prospettive di progetti su cui lavorare.
Comincia il 2013, e noi naturalmente DOVREMO ANDARCI ARMATI FINO AI DENTI.
Va da sè.
Perché se una cosa vale farla, vale farla bene, no?
Non ho paura. Ci sono dei problemi nella Vita, ma ho così tanta voglia di vivere, di entusiasmarmi che a volta mi sento esplodere di entusiasmo e di libertà. Perché, davvero, non c’é un problema di cui me ne freghi minimamente qualcosa. Vorrei solo continuare a lavorare su ciò che amo, ed esplorare la Vita così com’è. Sento di avere un sacco di cose da fare. Non so, non so cosa io farò, esattamente, che cosa farò e che ripercussioni avrà questo sulle persone. Diciamo che mi sento un po’ come una bomba a mano, e non trovo la spoletta. Credo che sarà divertente, in fondo. Magari anche doloroso, ma sono esperimenti che bisogna fare, per scoprire com’è. Si chiama vivere.
È da molto che non scrivevo su questo blog e mi è mancato.