Conobbi un uomo un tempo. Un Principe fra gli uomini. Aveva un modo di rimanere saldo quando attorno lui ci si agitava di sconquassi, ci si muoveva al ritmo del rumore della paura, si vacillava fra il cigolio della finestra e la minaccia della porta.
Conobbi un uomo, la chiameremo Fulmine, per il suo modo di esplodere con violenza immotivata, improvvisa. E tacere in un silenzio carico di conseguenze.
Lo chiameremo Lampo per il modo di portare luce su situazioni che parevano condannate al buio, a una mancanza di risoluzione, a girotondi stolidi incatenati a ripetere la litania del problema, lo stesso problema, quello che appariva un problema e che poi la Luce.
Lo chiameremo Tuono, per il fatto che ci lascio’ assordati e ci chiedemmo, dopo, a lungo, cosa fosse quel rumore. Provammo a imitarlo in un fracassare di pentole, rimasti orfani della decisione, della concentrazione in un’istanza, inebetiti di fronte alla capacita’ di portare le decisioni alle loro remote conseguenze. A quel genere di avvenimenti, che poi uno si chiede, ma guarda che qui poi non torni indietro, e non hai paura, almeno un poco, che magari se facciamo due passi a destra e poi zitti zitti ci defiliamo, allora magari non dovremo scegliere, nessuno ci interroghera’ e ciondoleremo dove non devi proprio proprio essere.
Conobbi un uomo che teneva il Fulmine nella mano, il Lampo nel petto e il Tuono nello sguardo e pensai. Pensai al peso della responsabilita’ e penso che oltre rimaneva poco spazio per l’anima. E che il sacrificio non importava, perche’ a noi servivano i Fulmini, i Lampi, ed i Tuoni, per poter essere, a nostro modo, incompleti, insicuri, ingrati. Ma vivi, scampati, riparati, ancora e in qualche modo, a una protezione di chi non doveva tenere su cieli o lottare con cumolonenbi. A chi le stelle non cadevano fra cuore e petto a incedere ferite irreparabili, e a dover rimanere li’, Vivi di una Vita tremenda e fragorosa, a servire scopi, che di chi li serviva forse se ne infischiavano.