Mi trovavo in stazione e una sorta di pudore mi spingeva ad evitare il lato sinistro dell’atrio, quei primi binari così distanti. Come se volessi lasciare lo spazio della discrezione a quei fantasmi che erano ancora fermi a una sera sotto Natale, ad aspettare quel treno che tardava a partire per poi perdersi nella foresta nera. Erano ignari ma comunque confusi da quello che li aspettava, da eventi netti per cui non erano attrezzati, intrappolati in comportamenti imprecisi. Così ero lì a camminare, a scivolare via da una visita a Milano, a preparare una chiamata a tarda sera con l’editore, a preparare le prossime presentazioni, i prossimi treni ed alberghi. Così, come a scivolarsi via, senza neanche il tempo di un ricordo agrodolce, di una preoccupazione. Rimanevo lì ad osservare i miei gusti e comportamenti mutare. I posti in cui ero a mio agio, il modo di confrontarmi con clienti e fornitori. Come a stemperarsi, perdere definizione da un lato e acquisirne dall’altro. Scomparire e riapparire in un mondo e una forma diversi. Quali sacrifici richiede sopravvivere? Quante stagioni bisogna affrontare, quanti cambi d’anima e pelle bisogna portarsi appresso? Le domande si infilano in quegli interstizi sottili, quella pace apparente, fra la linea di febbre e i quarti d’ora attesa. Lo spazio che bastava a formulare un quesito ma non ad abbozzare alcuna risposta.
E il treno già partiva, con la sua agenda, a riportarmi ad orizzonti intensi, sì, ma in modo diverso. Viaggiando sempre verso dove non fossi preparato, e arrivando mutato al mio arrivo.
Stazione
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