Tutto è cominciato con un risveglio ragionevole: una passeggiata verso Part Dieu, il Rhone Express a Saint-Exupery, la lunga, dannata coda per il controllo passaporti, una fila di stupidità che si mangia Schengen e l’Europa. Arrivo a Praga e mi attende il taxi, non gli dico neanche dove andare, non lo saprei nemmeno. Arriva Daniele, si mangia al tailandese.
E poi è mattino presto, le 4:30, quando io e Claudio ci alziamo, raggiungiamo la stazione dei pullman. Dopo sette ore e qualcosa sono all’aeroporto di Stoccarda. Venti metri fuori dal pullman e sono su un taxi. Giusto un minuto in ritardo per la riunione.
E ora mi trovo in un albergo incredibilmente deprimente, davanti alla stazione della città più deprimente che io abbia mai visto. Dovrò tornare la settimana prossima, e ancora fra tre settimane, e andare a Suresnes prima o dopo.
E chiudo valigia e mai la testa.
E penso tanto ma male, così a caso, di agitazioni confuse e inconcludenti.
Non ho il tempo di fermarmi, mai, di bere con quella serenità di altri tempi, di parlare ma non fra me e me. Di considerare tutto sotto nuove prospettive. Di brindare e i cento traguardi raggiunti e passati oltre.
Di ricaricare le pile, fra una fattura e l’altra.