La mattina ha forme vaghe, è popolata da brandelli di ricordi senza casa, da pensieri orfani, che vagano senza ordine. Di là c’è un amico vecchio come il mondo, vecchio come la metà degli anni che avevo allora.
Vorrei recuperare l’immagine esatta di uno qualsiasi di quei giorni, infrangere la sensazione che sia persa, che io ne sia spogliato, sine die.
Vorrei poter fermare la diaspora, senza invertirla, proprio cancellarla: radunare tutti qui e ora, come fossimo rimasti, rimasti almeno capaci di tornare.
Vorrei poter affermare il controllo sul passato, godermi la sensazione di possederlo, di averlo a mia disposizione, di poter riordinare e contare i giorni e le immagini come si contano le monete, ripercorrere gli avvenimenti in maniera precisa.
Vorrei poter credere a un mondo che era nostro, che vivevamo come una falange inconsapevole. Prima della diaspora, prima della maledizione che ci forzasse a dividerci ai quattro angoli dell’universo, per inseguire la possibilità del respiro, che qui non c’è più. E invece ci incontriamo un attimo, una sera soltanto, nei porti che ci offre il caso, ci addormentiamo sui tavoli, dopo averci detto una vita, dopo aver provato a riordinarla, a ripercorrere i passi da allora a qui. Tutto appare opaco, qualche passaggio deve essere andato perso e non potremo mai recuperarlo e condividerlo. Allora fidati, sotto la coltre di cose che non so più di aver vissuto, vivo ancora io, con i miei cross lunghi, troppo lunghi, e le mie entrate decise, a farti togliere la gamba, che ti conviene. Vivo ancora io, anche se non mi ricordo. Spero che tu invece, amico mio, possa continuarmi a vedere per quello che ero.
Poi usciamo per Torino, la luce cola lungo gli anfratti, avvolge i muri, si raccoglie in Piazza Castello. Sembra, per un momento, di vedere l’antico futuro che torna a muoversi come uno spettro. Poi riapri gli occhi, e prepari il prossimo addio.