“Ha gli occhi più vivi che abbia mai visto in viso umano. Il resto della paccotiglia che chiamiamo umanità si crogiola davanti alla luce innaturale del televisore, aspettando l’apocalisse. Aspettando qualcosa. Noi tutti aspettiamo qualcosa. L’aumento. L’amore vero. Un regalo. Una sorpresa. Un figlio. La morte. Lui non sta aspettando. Non sa cosa vuol dire aspettare. Non vede il passato, non vede il futuro.”
“Ed è per questo che, mentre mi riparavo gli occhi da un sole spietato, non sentii paura, non sentii il richiamo del domani, non mi pentii di niente, salvo del tempo perso a pensare di poter raggiungere qualcosa. A volte, mi dissi, bisogna perdersi. E forse qualcosa ti raggiungerà.”
L’ha scritto Claudio. Avevo appena parcheggiato sotto Piazza Vittorio quando ho letto questo suo intervento. Ero in anticipo. Poi sono salito e ho aspettato. Altri a passeggiare sotto i portici. Decido di entrare a scaldarmi. Una birra, per iniziare la serata.
Arrivano poi gli altri. Parlo con Tonino, l’accento londinese. Cecilia offre un giro di assenzio, le zollette che si fanno masticare dall’alcol. L’assenzio comincia a fluire in onde lunghe, frustate morbide di cui non senti lo schiocco.
Parlo con Carlos, parlo con Hannah, parlo con Alice, con Paolo.
Molti bicchieri dopo stiamo ballando da Giancarlo, 2.
Ci sono sciarpe che si perdono e bottoni che catturano, li liberi e ricatturano. Avranno ragione loro. Non bisogna fare rumore che Dragos dorme.
Ci sono mattini che arrivano, così, non te ne accorgi. Ci sono rientri a casa alla nove del mattino. C’è un clacson a svegliarti al semaforo.
Ci sono ore di Motel Connection e musica elettronica mentre provi a scrivere quella parte di articolo. I battiti scaglionati si mescolano ai comandi di R, ai cicli, ai data frame, a Latex e le sue opzioni, alla pizza nel pieno pomeriggio.
E Claudio ha ragione.
So feel that sun liquefying
Hear your sough in time
So hear the sound that survive