Abbozzi di quando dormo poco
Forse se fossi stato o stata in macchina con me in quel momento, la voce di Robert Plant che esplode lenta e densa, e il borbottio armonico d’un motore stanco. Se fossì stata lì fra la notte che accarezzava il giorno e la tua certezza che esso avrebbe continuato a negarsi. Se avessi potuto vedere la gioia di note che ti colpiscono, che percorrono gli angoli dell’abitacolo e via tutt’attorno la piazza e poi la città, incapaci di darsi un limite, controllate dalla propria ingordigia infantile. Io credo che, forse, avresti capito chi sono. E non avremmo parlato più. Che la meraviglia d’essersi capiti sarebbe stata certo superiore, avrebbe riempito essa solo i cuori, distolto l’attenzione da dischi lattuginosi appiccicati in teli blu, di treni che scappano anche di notte e feriscono la pianura, di sorrisi agli angoli delle strade. Di paura gettate coi tappi di Heineken. Sciolti, si, saremmo stati sciolti come da un voto, da una promessa non fatta, subita, di silenzi. O di tanto parlare senza riuscire a dire, eccomi, sono qua, cerchiamoci fra le note, chissà che al buio non capiti di trovarsi. E saremmo potuti rimanere lì, detto quello, detto tutto, allora si saremmo rimasti come pesci in una bolla. Stupiti e muti.
… anche questo post. Forse soprattutto questo. Leggere Castelli di Rabbia, bere Saké e dormire poco pare ti faccia bene.