E’ di nuovo notte. Puoi parlare di cicli, se ti va. Ritorni e fughe in avanti; ai cicli devi rispondere sorprendendoti ancora, di ogni nuovo ripetersi, accogliere i deja-vù con indifferenza. In questo modo li disorienti ed allora puoi colpirli. Oceani di gomma, quando ti ho visto eri una goccia… eppure sei ancora notte, tutt’intorno ai confini, giù dalla finestra perfino e chissà quand’è che ti stufi di correre, sono certo che non ti fermi nel Wald di là sotto. Continui, mica hai bisogno di fiato tu. Sarà per questo che mi trovo bene con te, cara notte, a te non serve l’aria, a me non servono i motivi. Come fossimo i padri delle disillusioni della logica (ok, dimmela in tedesco questa…). E’ strano che a te basti essere scura e senza parole e riesca a farti capire, altro che il mio struggle, per te non ci sono ultime curve in cui Glock si fa passare. Sei di una semplicità così grande, è un po’ come se la tua natura mi abbracciasse enorme, senza il bisogno di essere capita. Ecco, in questo senso più generosa. Di me, magari. Il gioco del tenersi i propri misteri, la propria natura, di parlarne di nascosto con un albero a volte non copre tutto lo spazio, a volte rimangono angoli vuoti in cui comunicheresti, ma per davvero. E sei lì ad esigere che qualcuno comprenda la tua natura: la sua semplicità poco gratificante o l’esagerazione di gesti annebbiati. Ecco, tutto d’un fiato. Come a non fermarsi sugli occhi ma scendere sotto. Come se poi ci fosse qualcosa. E così cara notte te ne stai lì senza un senso e senza guardare nei miei, senza chiedermi se li ho dimenticati negli altri pantaloni. Spero di no che sono nella lavatrice e sensi umidi se ne starebbero lì a ridere della mia dabbennaggine, a gridarla in giro. Non che qualcuno potrebbe capire nei paraggi. Alla fine alla destra e alla sinistra c’ho due cinesi. Uno di questi (una lei pare), in più di un mese, non l’ho mai vista. Una volta ho sentito dei suoni, ma forse era solo il cervello che bussava, chiuso fuori, le chiavi dimenticate sul comodino. Ad avercene, di comodini! Sposti la scrivania e vedi meglio dalla finestra, chiamala una difesa se vuoi. Scorri foto, specie quelle che non hai; a metà diciamo, alcune vere, altre ricordate, altre sognate; a spartirsimi come una mela, un morso la realtà, un altro qualcos’altro che non so cos’è. So che mi viene a trovare, a riempire un cielo che, vuoto com’è, sembra sempre un palcoscenico in cerca di qualcosa. Affamato. E cerco sempre qualcosa da lanciarti e se non ce l’ho me l’invento. Al di là dei colori delle magliette che ogni bella fanciulla abbia mai portato, dai miei sedici anni ad i tuoi venti, come fosse un periodo e non un elastico di giorni che si mangiano l’un l’altro. Ecco, che non importa se quel giorno c’era una birra in più, una in meno però avrebbe fatto di sicuro la differenza. Se non ci fossero panchine su cui ciondolare, quanto grande sarebbe la differenza nella vita di un uomo? Riesci a vederla l’importanza di gesti futili, di impressioni scambiate con il muschio? Riesci davvero a fiutare che è lì che si annida una parte dell’esistenza? Che forse non puoi e non dovresti cavare troppi sensi da vuoti e solo da quelli ma contornarli di fatti, di tangibilità. Ti riesce facile perdonarti questo difetto, al di là di come abbiano mai portato i capelli, di come li abbiano mossi nel darti le spalle ed allontanarsi. Come non avesse importanza il modo esatto del loro sfumarsi, o l’impegno dissimulato dello spingerle ai confini… ai tuoi confini. Come se potessi aprire il cassetto del comodino e trovarci la notte, come se potessi riporci problemi e chiuderlo. Come se poi ce l’avessi un comodino.
Comodini notturni
Comments
Come se servisse, un comodino. Ma senza dove nascondi parole scritte, pensieri proibiti, futilità di cui ti vuoi scordare? Che poi prima o poi li riapri quel cassetto (come le finestre di notte). E torni a sorprenderti, per fortuna. Bel post, complimenti.