Enrico era stato seduto tutta la vita e questa, impaziente, se ne era andata. Al suo passo, a suo gusto. Enrico fondamentalmente era rimasto seduto perchè aveva paura; di tutto o quasi. Di sicuro di quel mare di cose importanti che poteva andare storto in mille diversi, intollerabili modi. Era stato seduto perchè non poteva riuscire a pensare di non incontrare lei, quell’Amore in grado di riempire di profondità la sua vita che, altrimenti, sarebbe stata ingiustamente lassa e sfibrata. Non poteva tollerare l’idea di amicizie spezzate come rami secchi sotto il peso dei compromessi, degli egoismi che rodevano chi li compiva e ferivano chi li subiva. Io non so condannarlo Enrico, là nella sua sedia poi neanche troppo comoda. Aggrappato di fronte all’idea di un lavoro che lo mangiasse a poco a poco senza dargli le soddisfazioni che egli meritava. Come si sarebbe presentato al decennale della maturità senza neanche uno straccio di fuoriserie, senza una scusa masticata di amarezza, senza un progetto felice, o un’illusione d’amore in 180 cm di bionda-ossigeno e tacco vertigine, lì da lassù. Ecco, Enrico niente scuse, niente bugie gentili verso sè stesso, Enrico solo paure e una sedia su cui stenderle. E io ripenso Enrico, incapace di un rimpianto. E lo vedo scorrergli via tutto e neanche un sorriso amaro all’ultima possibilità, all’ultimo abbozzo, l’ultimo rattoppo ad una vita che si poteva ancora rabberciare, se non vivere. Enrico no, è rimasto con dignità seduto lì. Con le paure che lo schiacciavano assassine alla sedia e non ha piegato la schiena. Paura di cose assassine, mangia Vita, che una vita che avevi te la bacavano e mai l’avresti più avuta sana. Che Margherita una volta andata in stazione non l’avresti rivista mai, così fresca, allegra e tutta da vivere. E chissà chi l’ha vissuta.
Enrico e la sedia
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