May 17, 2013

Luce

Mi sono svegliato un giorno, sono sceso in strada e ho trovato l’aria fresca del primo mattino. Avevo dormito poco e la mia testa galleggiava, fra le vie, irraggiungibile a pensieri concreti, popolata solo di emozioni indefinibili, che pure avvertivo forti.

Mi ha stupito l’impatto con quella luce che, data l’ora e il periodo dell’anno, avrebbe dovuto essere tenue, capace di popolare le strade di Torino di un chiarore dolce, e nulla più. C’era una nota invece che rendeva la luce persistente. Un modo di brillare degli oggetti che sfiorava, delle targhe con i nomi delle vie, delle pietre di Luserna che calpestavo. Una luce differente. Mi sono ritrovato a imparare cosa fosse la luce, a scoprire un senso ulteriore nelle cose minime che popolavano la strada fino al Politecnico, dove arrivai troppo presto.

Mi sono domandato nei giorni seguenti se fosse davvero così: se davvero la luce, quel particolare tipo di luce, sia l’essenza di ogni cosa, la spiegazione ultima, il metro con cui misurare gli eventi o se volete la chiave di lettura che permette di comprendere, da sola, qualsiasi cosa sia degna di essere capita. La luce allora è forse l’essenza di ciò che è e di ciò che non è; disegna l’esistente di tratti e mancanze, di segni morbidi e assenze decise. A pensarci un attimo mi rendo conto che ogni profilo, anche quel particolare profilo, è composto tanto da ciò che c’è quanto da ciò che non c’è. La luce lo scopre, lo rende comprensibile alla mia povera mente. Corre lungo un filo ed è già un sussulto nel petto. La luce si sfoca e scompare, rimangono i tratti, dolci, che continuo a guardare, come se fosse possibile catturarli e non è così.

La luce si alza al mattino, scivola dentro la stanza a poco a poco, fino a sfiorarmi il viso. E’ una luce incapace di ferire gli occhi. Occhi che vengono a studiare dalla luce che cosa sia la bellezza, per poi ricordarlo anche quando la luce lascia la stanza. A quel punto, anche se non vedo più quei tratti dolci, continuo a vederne la bellezza: non è la luce che la crea, la luce me la spiega soltanto, perché io possa impararla.

E così quel tipo particolare di luce definisce il possibile, gli da una forma nuova. Modella, con una precisione che stupisce, quelli che nella mia mente erano pensieri abbozzati. Sogni? Si chiamavano così? Diventano povera cosa in un mondo in cui la luce ti attraversa il cuore e proietta come ombre vive i tuoi desideri, fino a che anche tu li capisci, per la prima volta.

Il primo goccio di luce che vedi nell’esistenza ti spiega in un attimo cosa sia l’universo, la Terra, l’odore del mondo e i suoi dolori. Così, se mi sembra di nascere nuovamente, è per via della luce, intensa e vivida, che ti sfiora i capelli e ne esce più forte.

La luce poi cola giù da Piazza Castello, scivola sul fianco dei giardini reali, e colpisce con quell’angolo a tre quarti che, ci giurerei, finirà col mozzarmi il cuore, incapace di crescere abbastanza in fretta per comprendere una bellezza semplicemente infinita. Rimango così, come una falena felice, irrimediabilmente attratto da un fenomeno che è semplicemente più grande di ciò che io possa analizzare, capire e spiegare.

Allora mi limito a viverlo, perché sì, io sono un ragazzo molto fortunato.

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